Giugno del '14
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 292, p. 3
Data: 8 dicembre 1957
pag. 3
Nel giugno del 1914 vi fu in alcune parti d'Italia un tentativo d'insurrezione popolare simile, almeno in parte, a quello del maggio 1898. Anche questa volta Milano dette il segnale, ma i fatti più significativi accaddero in Romagna, dove alcuni paesi furono, per qualche giorno, nelle mani degli insorti, che improvvisarono alla buona comitati di salute pubblica e repubblichette di cuccagna cibaria.
In uno scritto da me pubblicato in Lacerba del luglio tentai di riconoscere e descrivere le cause di questi moti e non voglio qui ripetermi. Quello scritto fu ristampato, in prima pagina, dall'Avanti!, diretto allora da Benito Mussolini, ch'era il capo riconosciuto del socialismo rivoluzionario e, sotto l'influenza di Sorel e di altri sindacalisti, sosteneva contro il fabianismo pantofolaio dei riformisti (idest turatiani) la necessità dell'«azione diretta». Un amico tornato da Milano mi raccontò, anzi, che ad un comizio tenuto all'Arena, al quale partecipava una turba immensa di operai, Mussolini, alla fine di un infiammato e infiammante discorso, disse che le rivoluzioni non si fanno soltanto con le parole, ma che ci volevano armi. E gridò alla moltitudine: «Chi di voi ha un'arma alzi la mano». Ma tre o quattro soltanto, in quella sterminata assemblea di rivoluzionari, alzarono la mano e da quel giorno — aggiungeva l'amico — Mussolini si persuase che il socialismo italiano era troppo poco guerriero per aspirare alla conquista del potere.
Eppure uno degli stati d'animo — non dico pensieri — che suscitarono quell'aborto di rivoluzione fu proprio, secondo me, il fallimento, effettivo o presunto, del socialismo parlamentare, che tante speranze aveva fatto nascere dopo le vittorie dei primi anni del secolo.
Turati era un uomo di ricco ingegno ed avrebbe avuto dei numeri per riuscire un eccellente scrittore — difatti la prima rivista da lui fondata s'intitolava Cuore e Critica ed era rimpinzata di letteratura oltre che di politica — ma non aveva le virtù necessarie a un uomo di azione, a un vero capo. Faceva dei bellissimi discorsi alla Camera e dei bellissimi articoli nella Critica Sociale, ma non pensava di scendere in piazza, come aveva fatto nel '98, e dubitava che «il sole dell'avvenire» potesse splendere sul presente grazie a un colpo di mano e ad una rivolta armata. D'altra parte era ancor vivo, in gran parte del popolo, lo spirito battagliero e manesco delle vecchie repubbliche italiane, che s'era ridestato al tempo dell'invasione francese eppoi rinfocolato ora dalla propaganda sindacalista. Agli occhi di molti, i bravi parlamentari riformisti apparivano ormai uomini casosi e mosci. Turati aveva, come ninfa egeria, una russa assai intelligente e animosa, la Kuliscioff, ma essa, come donna e come straniera, non poteva occupare il primo posto e guidare il socialismo con maggior decisione ed energia. Fu allora, credo, che Mussolini ebbe a dire: il socialismo italiano non ha che un uomo e quest'uomo è una donna e questa donna è russa.
Ma questa delusione non fu il solo movente dell'insurrezione del giugno. Ricordo benissimo che in tutti i ceti era diffuso un senso d'insoddisfazione e di noia, d'impazienza e di confusa attesa di qualche evento, che rompesse il nebbione di monotona mediocrità che pesava sull'Italia. L'impresa di Libia, per quanto terminata con una mezza vittoria e con un compromesso giuridico, aveva letiziato i nazionalisti, ma non aveva fatto nascere, nei più, l'euforia imperiale. Non erano ancora tangibili i frutti di quella frettolosa e contrastata conquista e anzi v'era stato un certo rincaro della vita, che fu uno dei pretesti dell'insurrezione. Il Governo, come quasi sempre fu in Italia dalla morte di Cavour in poi, aveva poca autorità e ancor meno prestigio: vivacchiava in un clima d'indifferenza e di sfiducia. Tutti i ministri s'insediavano con buone intenzioni e sonori discorsi, ma poi venivano irretiti e asserviti dal gioco delle fazioni di Montecitorio e dalla tacita congiura dell'onnipotente burocrazia.
V'era, perciò, come ho detto, un vago desiderio di novità a ogni costo, senza saper bene in che cosa dovesse consistere tale novità e da qual punto dell'orizzonte dovesse sorgere. I patriotti trovavano che l'Italia era troppo condiscendente verso gli alleati, che allora erano la Germania e l'Austria; i socialisti sentivano che la conquista dello Stato, con quella andatura lemme lemme dei parlamentari addomesticati, procedeva troppo incerta e lenta; i giovani intellettuali erano tediati e nauseati dalla senilità decadente delle classi dominanti, e s'ingegnavano di scalzare e corrodere le «tavole dei valori» sulle quali poggiava la morale borghese e la cultura ufficiale.
L'Ottocento si prolungava pigramente in quello smorto proemio del Novecento, benchè non fosse più capace di rinnovare le sue formule nè di rinfuocare i suoi ideali. Benchè la vita fosse ancora facile e il mondo apparisse in pace, nessuna classe, nessuna Nazione era contenta di sè nè delle altre. Si sentiva sul capo l'oppressiva calura del nuvolame dal quale, di lì a poco più d'un mese, sarebbe scoppiato il furioso uragano della prima guerra mondiale. Anche i moti rivoluzionari italiani del giugno 1914 furono tra i sintomi locali di questo disagio universale, di questa smaniosità mal repressa, della tremenda crisi distruttrice che stava per sconvolgere popoli e regni.
Anche a Firenze vi fu un principio di sommossa e siccome correvano voci fantastiche sopra una specie di fortilizio innalzato dai rivoltosi, volli andare a vedere coi miei occhi quel che veramente succedeva. Venne con me il giovane Ugo Tommei, libraio e scrittore, un di quegli intellettuali avidi e generosi, che spesso sorgono tra la povera gente di Firenze. Si andò in via dei Benci e arrivati al caffè delle Colonnine sí vide che all'imbocco del Corso dei Tintori — dov'era in quel tempo la Camera del Lavoro — era stata messa su alla meglio una catasta di roba, che poteva appena meritare il nome di barricata. Ma non c'era un vero e proprio combattimento: i difensori della barricata si contentavano di stare appiattati dietro i ripari, gettando grida e sassi. Pochi soldati, appostati nelle vicinanze, sparavano ogni tanto una fucilata. E siccome io e Tommei — tutt'e due miopi — si cercava di avvicinarci per veder meglio, alcune pallottole ci fischiarono agli orecchi e altre vennero a rotolare presso ai nostri piedi.
Ma ci accorgemmo subito che quel simulacro di barricata e quella stracca fucileria non potevano far presagire nè attuare una vera rivoluzione, come quella che s'era imparato a conoscere nelle storie dei francesi, e siccome era mezzogiorno passato si scantonò sotto l'arco dei Peruzzi e si tornò a casa, persuasi che tutto stava per finire, come difatti finì. La rivoluzione era fallita, ma stava per cominciare la sua prima e più terribile sorella: la guerra.
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